La scorsa settimana, pur monopolizzata dalle presidenziali americane e dalla netta affermazione di Donald Trump, ha visto andare in scena anche dal consueto meeting della Federal Reserve, che ha abbassato all’unanimità il livello dei tassi di un ulteriore quarto di punto, dopo il più consistente taglio di 50 punti base operato poco più di un mese fa, portandoli all’intervallo 4.5%-4.75%, confermando così gli sforzi della massima autorità di politica monetaria statunitense di mantenere l’espansione economica del Paese (+2.8% nei primi 9 mesi dell’anno) nonostante qualche lieve scricchiolio sul fronte occupazionale (solo +12mila posti di lavoro ad ottobre).
“Questa ulteriore ricalibrazione della nostra posizione politica aiuterà a mantenere la forza dell’economia e del mercato del lavoro e continuerà a consentire ulteriori progressi sull’inflazione mentre ci muoviamo verso una posizione più neutrale nel tempo“, ha commentato il chairman della Fed, Jerome Powell.
Ma, al di là dell’allentamento monetario, ampiamente previsto – gli analisti sono convinti ne seguirà un altro di pari entità nel corso dell’ultimo meeting dell’anno – l’attesa era tutta su un eventuale commento di Powell riguardo l’esito del voto, dopo gli attacchi subìti da Trump in campagna elettorale, convinto che la Fed facesse il tifo per la Harris e che il precedente taglio di mezzo punto di settembre stesse lì a dimostrarlo. In precedenza, The Donald si era anche spinto oltre, definendo Powell “Un nemico più grande del presidente cinese Xi Jinping”.
Eppure qualcuno dovrebbe ricordare al President-elect che fu proprio lui, nel 2017, a nominare Powell defenestrando la stimata Janet Yellen, contravvenendo così, per la prima volta in 40 anni, alla regola non scritta che vede il nuovo Presidente confermare per un secondo mandato il chairman nominato dal suo predecessore.
Ad esplicita domanda, anzi, per essere ancor più chiari, alla domanda “Lascerebbe il suo incarico prima della fine del suo mandato (2026) se Trump glielo chiedesse?“, Powell ha risposto con un laconico “No.”, una risposta che mi ha ricordato una vecchia massima del calcio, dai più attribuita a Vujadin Boškov, come del resto qualsiasi altra frase ironica o saggia del mondo del pallone: “L’allenatore migliore è quello che fa meno danni”.
Ecco, traslandola nella politica monetaria, si potrebbe dire che “Il banchiere centrale migliore è quello che fa meno danni“.
Powell avrebbe potuto alimentare questa polemica a distanza, forte del fatto che lo Statuto della Fed prevede l’assoluta indipendenza della politica monetaria da quella fiscale; basti pensare che, sebbene sia l’inquilino della Casa Bianca a nominare il Presidente della Fed, non può sollevarlo dall’incarico. Come se non bastasse, il mandato dei 12 Governatori delle Federal Reserve regionali dura 14 anni, un ulteriore espediente per scongiurare qualsiasi invasione di campo, ciò significa che Powell, seppure non dovesse essere confermato dopo il 2026, resterebbe nel board fino al 2028 – la sua prima nomina risale al 2014; insomma, a Trump converrà tenerselo buono. Poi, certo, nel 2026 Trump potrebbe inserire uno dei suoi approfittando della scadenza del mandato di Adriana Kugler, uno dei 7 membri del “Board of governors”, l’altra organizzazione – complessivamente sono 4, oltre alle già citate 12 banche regionali, vi sono il Federal Open Market Commitee (FOMC), composto a sua volta da 12 membri, 7 del “Board of governors” e 5 dei presidenti delle Federal Reserve regionali, e le banche private associate – di cui si compone il complesso architrave su cui si regge la Federal Reserve System. Per avere un’idea più chiara, vi consiglio di andare sul sito della Fed, cliccando su questo link.
Per chi non ne avesse voglia, sappiate che il Federal Reserve Reform Act del 1977 e lo Humphrey-Hawkins Full Employment Act del 1978 hanno reso la Fed non facilmente permeabile alle velleità di controllo del potere esecutivo.
Anche sui rischi che le politiche fiscali promesse da Trump in campagna elettorale – tra gli altri, l’implementazione di tariffe e dazi più aggressivi, la repressione dell’immigrazione e maggiori tagli fiscali – possano esercitare una nuova pressione al rialzo dei prezzi e spingere il mercato a richiedere tassi più alti per finanziare il disavanzo americano, già adesso al 7%, e dunque costringere la Fed ad interrompere il ciclo di allentamenti, Powell ha preferito tagliar corto, dichiarando che “Non sappiamo quali saranno i tempi e la sostanza di eventuali cambiamenti politici. Non sappiamo quindi quali sarebbero gli effetti sull’economia, in particolare se e in che misura queste politiche sarebbero importanti per il raggiungimento delle nostre variabili obiettivo: massima occupazione e stabilità dei prezzi”, lasciando intendere che una cosa è fare campagna elettorale, un’altra è governare.
Powell ha però aggiunto che la Fed sta attentamente osservando il rialzo dei rendimenti obbligazionari a lungo termine, attribuendolo alla percezione di una crescita più forte. Per comprendere se e fino a che punto essi potranno rappresentare un rischio, egli ritiene che sarà necessario attendere.
A tal proposito il mercato ritiene che l’aumento del rendimento dei Treasury a dieci anni sia dovuto alle aspettative sulla cosiddetta “Trumpflation“, in particolare agli effetti che essa avrà sull’inflazione, effetti che, come detto, richiederanno una politica monetaria più restrittiva per compensare la richiesta di tassi di interesse via via più elevati e mantenere il debito su un sentiero di sostenibilità.
Su questo tema Powell avrebbe potuto essere più incisivo, salire sul ring della politica e, come fatto dal suo predecessore Yellen, dare dell’incapace a Tump. Invece, il chairman della Fed ha preferito continuare a mantenere un atteggiamento “alto”, chiarendo che sì, l’aumento del tasso de Treasury potrebbe dipendere dalle boutade di Trump ma sono da valutare anche altre variabili, quali per esempio il ritorno degli investitori verso mercati più rischiosi.
Ad ogni modo, Powell si è detto pronto ad agire, incurante dei diktat della politica: le sue future decisioni saranno come al solito in linea con il mandato duale dell’Istituzione che ha l’onore e l’onere di presiedere: stabilità dei prezzi e piena occupazione.
Concludo con una citazione più alta della precedente, mi è venuta in mente proprio ora – Boškov mi perdonerà –, è di Oscar Wilde: “Mai discutere con uno stupido, ti trascina al suo livello e ti batte con l’esperienza”, chissà, forse è proprio ciò che ha pensato Powell nel (non) rispondere alle domande dei giornalisti.
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